Un po’ l’avevamo intuito, che c’era e c’è qualcosa che non va in questi tempi beffardi, “liquidi”, in cui ogni scelta sembra essere quella sbagliata. L’indicatore del malessere della mia generazione, l’abbiamo detto e ripetuto fino alla nausea, sta nel non avere, spesso, un posto nel mondo. Cioè un lavoro, il ruolo sociale che ne consegue, in definitiva: una identità. Una delle prima domande che ci vengono poste in età adulta è infatti: “cosa fai?”, inteso nel senso di lavoro, di attività, di “fare” delle cose. Possibilmente retribuite.
Questo, fino ai nostri genitori, figli di persone che avevano fatto la guerra, talvolta la fame, e che lavoravano vedendo dei risultati concreti.
I miei nonni – 3 su 4 emigrati in Sardegna da altre regioni dopo la guerra, con neanche gli occhi per piangere- hanno lavorato duro, comprato case, fatto studiare i loro figli all’Università e fatto in tempo a vedere la disoccupazione della nipote più grande.
Il “sogno americano” è tramontato anche in America, mentre in Italia non c’è proprio mai stato, perlomeno in quella accezione mitologica: d’altronde, noi siamo il paese della “famigghia”, della conoscenza, della cooptazione come metodo di reclutamento lavorativo.
Sui perché possiamo interrogarci ampiamente, tanto il tempo ce l’abbiamo.
L’Italia è ingiusta e pure immobile
Nel grafico, elaborato dall’economista canadese Miles Corak, l’asse orizzontale indica la diseguaglianza tra i redditi, quello verticale la mobilità di reddito tra generazioni: in sostanza, il rapporto che c’è tra gli stipendi dei padri e quelli dei figli. Andando dal basso verso l’alto, aumenta l’immobilità. Andando da sinistra a destra, cresce la diseguaglianza.
Un paese può essere molto diseguale, ma avere una forte mobilità tra generazioni: il figlio del povero può farsi strada e diventare ricco. Era la base dell’American Dream, amaramente smentita dalla curva di Gatsby: non a caso entrata nei report del consiglio economico per Obama, e ora oggetto di un dossier del Journal of Economic Perspectives.
Dove si legge: in paesi come Usa, Gran Bretagna e Italia almeno metà dei propri vantaggi economici viene dal fattore-famiglia, che invece pesa solo un quinto sui figli di norvegesi, danesi, finlandesi. Il consiglio è di correre ai ripari, investendo alla grande sulle politiche, come quelle scolastiche, che riequilibrino un po’ i pesi tra i figli. E da noi? Arriverà la discussione sulla curva del ricco e raffinato Gastby anche nel paese dei milionari senza gusto?